Domenico Ghidoni (13 sett. 1857 - 2 sett.1920
)
Domenico Ghidoni nasce ad Ospitaletto il 13
settembre del 1857. Figlio di contadini, passò la fanciullezza
e la prima giovinezza nel lavoro dei campi insieme con il padre
e i fratelli: ben presto iniziò a occupare le ore libere
dedicandosi a pazienti lavori di intaglio nel legno.
La più celebre di queste opere della
giovinezza è una tabacchiera in forma di scarpetta in legno di
bosso, in cui sono raccolti faticosamente sul coperchio, sui
lati, sulla suola, gli oggetti e i simboli della passione di
Gesù.
Questi primissimi saggi di arte popolare e
spontanea sono testimonianze di una vera e propria vocazione
alla scultura. Grazie all’aiuto di persone che ne apprezzarono
l’abilità, Ghidoni, andò ventenne a Brescia, all’apprendistato
di Pietro Faitini (1833-1902 scultore rinomato in città). Nella
sua bottega, Ghidoni ebbe modo di acquisire i rudimenti della
tecnica e del mestiere, e la difficile arte di trattare il
marmo.
Il suo carattere viene definito schivo,
modesto e riservato. Non si sposò mai e non ebbe più un focolare
domestico dopo l’abbandono della casa nativa. Appresa la
tecnica, partecipò ad un concorso per ottenere la borsa di
studio istituita da Camillo Brozzoni (1802-1864) per aiutare
giovani artisti bresciani.
Ghidoni vinse il concorso presentando un
bozzetto intitolato EMIGRANTI. Vinto il concorso, dal 1880 visse
a Milano e a Torino a scopo di studio, lavorando nelle botteghe
di affermati scultori come Odoardo Tabacchi (1831-1905),
rappresentante della corrente verista.
Finita la borsa di studio, Ghidoni si
presentò, tra il 1882 e il 1890, a diverse esposizioni in cui
cominciò a farsi conoscere all’interno della corrente verista.
Iniziò anche a vendere: nel 1885 ricevette una importante
commissione per la tomba della famiglia Garbagnati al Cimitero
Monumentale di Milano. Numerose, da allora, sono le statue e le
composizioni per tombe a Milano, Torino e Brescia.
Rimase collegato a Brescia grazie
all’amicizia con l’architetto Antonio Tagliaferri (1835-1909) e
la sua famiglia, oltre che alle famiglie Manziana e Minelli. A
Brescia eseguì il famoso monumento a Tito Speri, inaugurato nel
1888, nonchè i monumenti funerari Bonoris e Da Ponto nel
cimitero Vantiniano.
Nel 1889 inviò ad una esposizione al
Glaspalast di Monaco di Baviera una statua in marmo, Piacere,
che fu subito venduta. Da lì scaturì un invito a lavorare in
Germania. Il suo carattere gli impedì di accettare la proposta.
Nella sua maturità visse quasi
esclusivamente a Milano. Nel 1891 presentò all’Esposizione
Triennale di Brera l’importantissimo gruppo EMIGRANTI che lo
impose all’attenzione nazionale. Per l’occasione aveva ripreso
il bozzetto utilizzato anni prima per il concorso Brozzoni.
Spirito sensibile agli ideali di giustizia
e libertà, indignato dal disdegno e il disprezzo nutrito dalla
borghesia verso la povera gente, egli prese a simbolo dello
sfruttamento e dell’abiezione umana le prostitute che
rappresentò in un’opera provocatoria e mirabile in un gruppo
ormai perduto dal titolo LE NOSTRE SCHIAVE. Di quest’opera
restano fotografie e un calco, mentre l’originale fu distrutto
in parte dall’autore stesso. L’opera fu rifiutata alle
Esposizioni Riunite di Brera nel 1894 per il soggetto scandaloso
e provocatorio.
L’episodio segnò negativamente il pittore
che distrusse l’opera, ma non i gessi. La reazione fu un
rinchiudersi in se stesso: non espose più, partecipò raramente a
concorsi con poca convinzione, senza riuscire a vincere mai.
Gli furono commissionate le statue degli
evangelisti Matteo e Giovanni, per la parrocchiale di Alzano
Maggiore. Nel 1898 scolpì il medaglione commemorativo in
occasione del decennale della morte di Cesare Correnti,
combattente e storico delle dieci giornate. Lo stesso anno fu
inaugurato il monumento al Moretto.
Numerose furono le commissioni di statue,
bassorilievi, pallii d’altare che gli vennero affidate in
numerose chiese, tra cui Ospitaletto dove realizzò “una
dolcissima figura di Cristo tra i bimbi”. Degno di nota anche il
monumento a Maddalena Monge-Grun nel cimitero di Milano del
1912.
Visse gli ultimi anni della vita ancora
solitario e isolato. Morì all’età di 63 anni il 2 settembre
del 1920 di malattia “irreparabile” presso l’Ospedale
Fatebenefratelli. Fu assistito da alcuni amici e dalla nipote
Bina.
tratto dal libro Domenico Ghidoni di Enzo Abeni e Luciano
Spiazzi (1985)